Lei ha frequentato il liceo classico Leopardi. Com’era il dottor Di Saverio da adolescente e che rapporto aveva con i suoi genitori?
Da adolescente ero magrolino, biondo, e con un carattere ben determinato. Non ero il classico secchione, ma prendevo ottimi voti. E mi ha fatto piacere trovare la mia pagella d’oro ancora appesa sui muri dell’istituto. I miei professori e compagni di liceo si ricordano molto bene di me. Ero un po’ irrequieto, facevo le occupazioni. Portavo avanti le mie idee, un anno credo di aver preso anche sette in condotta. Ma alla fine è rimasto un rapporto di stima con i miei professori. Con i miei genitori avevo un rapporto dolcissimo, oggi purtroppo non ci sono più. Erano orgogliosi che frequentassi il liceo classico di San Benedetto e dei voti che prendevo. Mio padre era un costruttore e mia madre una professoressa al liceo di latino e greco. Amavo la matematica, la fisica, il latino e greco. Purtroppo li ho vissuti poco per via degli studi e poi degli impegni lavorativi.
Quando ha scoperto la passione per la medicina?
In realtà non volevo fare medicina, ma ingegneria. Portai greco e fisica alla maturità, ottenendo il massimo dei voti. Mio padre voleva un figlio chirurgo, questo era il suo sogno. Feci il test di ingresso all’Ingegneria a Roma ed entrai. Mamma mi spronò a fare il test di ingresso alla Cattolica, così prolungai il soggiorno in hotel nella capitale. Mia madre mi disse “sbaglia i quiz, ma almeno andiamo incontro al desiderio di tuo padre”. La mattina dopo mi sono presentato al Gemelli per fare il quiz senza aver studiato chimica e biologia. Su mille partecipanti, mi sono classificato tra i primi 50. E questo fu visto da mia madre come un segno del destino, mio padre felicissimo. Io rimasi sconcertato da questo risultato. Ero entrato anche in Ingegneria gestionale. Alla fine iniziai a fare medicina al Gemelli. La mia carriera in chirurgia non è stata facile, sia durante l’università sia durante la specializzazione. Ho avuto i miei momenti di crisi. Non ero soddisfatto e gratificato. Le migliori soddisfazioni le ho trovate all’estero. Soprattutto quando si opera. Sono stato il più giovane capo equipe chirurgica al Maggiore di Bologna, acquisendo sempre maggiore esperienza.
Dal 2018 al 2020 primario di chirurgia presso l’Addenbrooke’s Hospital, Cambridge University Hospitals NHS Foundation Trust, Regno Unito. Poi ha deciso di tornare in Italia ed oggi vive e lavora a San Benedetto, perché?
Ero il più giovane primario in Inghilterra. Sono tornato perché mia madre aveva sviluppato una sindrome depressiva per la mia partenza, mio padre era scomparso già da qualche tempo, ed accettai un’offerta da primario a Varese. Poco dopo mia madre morì. Probabilmente se non fosse morta sarei ancora a Cambridge. Ma in quel momento ho pensato che lo dovevo a mia madre che si è dedicata completamente a me, andando anche precocemente in pensione, per starmi vicino. Con lei ho sempre avuto un rapporto speciale. Non mi pento di questa scelta. Dopo Varese, dove trascorsi il difficile periodo del Covid, ho saputo che si erano aperti i termini per il concorso da primario all’ospedale di San Benedetto ho pensato questo era il treno che passa una volta sola nella vita. Quando arrivai a maggio 2021, sono andato a casa dei miei genitori in attesa di sostenere il concorso, poi al cimitero sull’altarino di mia madre misi la convocazione del concorso. In un colloquio ideale con lei le chiesi di darmi una mano se questo fosse stato il treno giusto per me. Incontrai il fabbro, che si occupava della cappella dei miei genitori a Colonnella che mi disse che quella mattina la madre si era svegliata dicendo di aver sognato la mia e che, in quell’occasione, c’era da festeggiare. Io ebbi un brivido.
Diverse le attività didattiche che porta avanti oltre a ricoprire incarichi universitari. A suo avviso quali sono le sfide che si trovano ad affrontare gli aspiranti medici?
Sono tante. Oggi più che mai il sistema italiano non è molto formativo. A San Benedetto abbiamo avuto diversi chirurghi tirocinanti che arrivano da diverse parti del mondo. A me interessa far crescere la chirurgia di San Benedetto e tutta la Ast di Ascoli, non vedo campanilismi. E’ importante la collaborazione tra le chirurgie di San Benedetto e Ascoli: l’unione fa la forza.
Spesso si trova di fronte a casi clinici compromessi e complicati. Quali sono le parole che non manca mai di dire ai suoi pazienti?
I casi più disperati sono quelli che amo di più. La presenza di un’ottima anestesia rianimazione diretta dalla dottoressa Principi mi ha permesso di operare dei casi complessi con ottimi risultati. Purtroppo è chiaro che non sempre è possibile. Ma io non getto mai la spugna con i miei pazienti. A loro dico, ci sono diverse tipologie di intervento e rischi. E’ come un viaggio che in base all’itinerario ha dei rischi. A volte si tratta di fare un volo intercontinentale, io sarò il pilota d’aereo, con un buon pilota e un ottimo mezzo. A San Benedetto abbiamo le migliori strumentazioni e tecnologie. Quando si cura una malattia si può vincere o perdere, ma quando si cura un paziente si vince sempre.