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[PAUSA CAFFE’] Olimpia Gobbi, si racconta. “Quel club fondato negli anni Settanta per sfuggire al controllo degli adulti”

Assessore alla Cultura della provincia di Ascoli quand’era presidente Massimo Rossi. “Anni di intenso lavoro e dialogo. Tra le iniziative più significative il festival "Saggi Paesaggi"
Pubblicato il 23 Febbraio 2024

MONTALTO MARCHE. Olimpia Gobbi nasce a Montalto delle Marche. Che bambina e adolescente è stata?

Una bambina libera di correre e giocare per le strade del paese, di entrare nelle case dei vicini e compagni senza suonare il campanello, non c’era, e senza bussare perché le porte erano sempre aperte. Porchia, la frazione di Montalto Marche dove sono nata e vissuta, è un piccolo paese senza gerarchie, dove negli anni Cinquanta vivevano tanti artigiani come falegnami, sarti, ciabattini e magliaie, con poco lavoro, i più fortunati avevano un piccolo fazzoletto di terra dove coltivare l’orto. Eravamo tanti bambini. L’asilo, ancora non si chiamava scuola materna, era gestito dalle suore. Ed ecco che la parrocchia, le vie del paese, la scuola diventavano per noi come delle case. Memorabili le nostre rappresentazioni teatrali a cui assisteva tutta la comunità, e poi le processioni con le infiorate, le luci e le coperte più belle stese alle finestre mentre noi bambini facevamo a gara per indossare le ali di cartone trasformandoci in angeli. Come dimenticare la fiera della patrona Santa Lucia con fedeli che arrivavano da lontano e la festa del Primo maggio, con l’albero piantato in piazza e sopra la bandiera rossa contestata e talvolta fatta togliere dalle autorità. Insomma una vita comunitaria senza noia. Ho imparato ad andare in bicicletta e a guidare la Vespa nelle ore più calde dei mesi estivi, quando la canicola di agosto teneva gli adulti chiusi in casa e noi, liberi dal loro controllo, ci mettevamo alla guida di mezzi che altrimenti non potevamo toccare.  Perché eravamo liberi ma anche molto controllati. In seguito, durante l’adolescenza agli inizi degli anni Sessanta, abbiamo fondato un nostro club e lì ci siamo sottratti a quel controllo: minigonne, mangiadischi, twist e nuovi balli erano i linguaggi della differenziazione.

Cosa rappresenta per lei il paese dove è nata e ancora oggi vive?

Il paese dell’infanzia e dell’adolescenza è per me, come credo per molti, un luogo dell’anima e, sotto certi aspetti, della nostalgia, del desiderio del ritorno a uno spazio, tempo che non c’è più. Una perdita oggi non solo interiore ma anche fisica perché Porchia, Patrignone, lo stesso capoluogo Montalto degli anni Cinquanta e Sessanta, come altri paesi dell’entroterra, non esistono più, sottoposti a un costante spopolamento e a rischio abbandono. Essi per me sono il documento della transizione storica che stiamo vivendo: un gelo demografico che ci sta invecchiando, l’agonia delle economie locali, dei piccoli negozi, dei forni, delle botteghe sostituiti dai centri commerciali, dalle economie delle multinazionali e dagli acquisti online. Sono anche la documentazione visiva della cecità delle politiche pubbliche che in nome della riduzione della spesa hanno chiuso uffici postali, scuole, guardie mediche condannando le zone interne del paese ad agonizzare e, forse, a morire. Oggi i fondi del Pnrr hanno attivato interventi importanti, Montalto in particolare è il Comune che nelle Marche ha ottenuto il finanziamento da venti milioni per il bel progetto “Metroborgo, presidiato di civiltà future”. Nutro la speranza che possa far germogliare di nuovo queste realtà.

Storica locale, quando inizia ad appassionarsi a questa materia?

Presso la facoltà di lettere di Firenze, durante i miei studi per il conseguimento della laurea in lettere classiche, erano attivi percorsi innovativi di ricerca sulla cultura materiale e popolare del mondo antico che mi hanno aperto interessi di tipo storico e sociologico. Successivamente sono stati determinanti l’incontro e la collaborazione con il gruppo di “Proposte e ricerche”, rivista coordinata dai professori Sergio Anselmi e Renzo Paci per lo studio della storia socio ed economica dell’Italia centrale.

Assessore alla Cultura della provincia di Ascoli Piceno, quando era presidente Massimo Rossi. Che periodo è stato?

E difficile dire che cosa sia stato per me quel periodo. Certo, anni di intensi lavoro, di ascolto, di dialogo e co-progettazione con tante istituzioni e associazioni culturali, impegno a tessere connessioni e reti in un territorio portato a frammentarsi e chiudersi nel particolare. Esplorazione e realizzazione di percorsi e progetti innovativi: Il festival “Saggi Paesaggi” con le grandi mostre di Tullio Pericoli e Osvaldo Licini; le notti al museo con i bambini delle scuole elementari, una delle  prime esperienze in Italia; le attività con gli insegnanti e le scuole sulla cultura scientifica, la rete dei musei scientifici e il progetto per il Museo dell’Innovazione presso le Officine Montani di Fermo con la nascita del Miti, la riqualificazione della Cartiera papale di Ascoli con la strutturazione del museo dell’Acqua; la strutturazione e la nascita di Bibliosip, il sistema bibliotecario del Piceno con il catalogo interprovinciale on line del patrimonio librario; il progetto di ricerca di storia territoriale contemporanea “Documentare il Novecento” realizzato con le scuole. Il tutto in collaborazione con enti culturali di prestigio nazionale e internazionale come il Museo della Scienza di Milano, la Sissa di Trieste, gli Istituti di Cultura di Barcellona, Budapest e Parigi; con la partecipazione di personalità quale il presidente della repubblica Eugenio Scalfaro e di personaggi quali Erri De Luca, Neri Marcorè, Giorgio Albertazzi, Jovanotti. Ma soprattutto è stato un periodo per me di maturazione politico e culturale perché ho potuto osservare dal di dentro le pratiche dei partiti, il loro modo di stare nelle istituzioni, purtroppo troppo spesso guidato da logiche di potere, gli approcci e le scelte dei politici di professione di quelli che lavorano per il territorio e per il bene comune e di quelli che lavorano per la propria carriera. I primi, mettendo al centro i contenuti e i problemi aldilà delle appartenenze, i secondi usandoli e strumentalizzandoli per logiche di affermazione personale o di gruppo. Ne sono uscita con la convinzione che una democrazia matura ed efficiente ha bisogno di partiti con culture interne diverse dalle attuali e di cittadini più centrati sui problemi e sulle soluzioni proposte e meno sulle appartenenze e sulle bandiere.

C’è un’iniziativa che ha tenuto particolarmente a realizzare?

Tutto il progetto sul paesaggio, la cui punta comunicativa era il festival “Saggi Paesaggi”, ma che in realtà aveva un lavoro profondo e continuativo nel corso dell’intero anno. Abbiamo fatto progetti comuni con l’ordine dei Geometri per migliorare la consapevolezza progettuale di tali professionisti, abbiamo lavorato con le scuole e con gli amministratori comunali. Allora si trattava di una tematica pionieristica, oggi, per fortuna, entrata nella consapevolezza di molti. Si trattava di far sì che il paesaggio Piceno venisse riconosciuto e letto dagli abitanti nella sua specificità e nei suoi valori e, conseguentemente, si mettessero in atto politiche di gestione del territorio ed urbanistiche, scelte e azioni private in sintonia e in continuità con quei valori. Il tema era così nuovo che un politico di peso del Piceno ci attaccava dicendo che noi avevamo una visione bucolica del territorio. Si trattava invece di una visione olistica volta a garantire la qualità dei nostri spazi di vita, a tutelare i valori storici del nostro bel paesaggio, a prevedere trasformazioni che non ne sconvolgessero l’identità e la bellezza consolidando così, fra l’altro, anche l’attrattività turistica dei nostri luoghi.

Docente di Storia Moderna l’Università di Macerata, Facoltà di Beni Culturali, sede di Fermo. Com’erano le sue lezioni?

Erano lezioni che generalmente preparavo con scrupolo, ma se fossero interessanti e rispondenti agli interessi degli studenti, non saprei. Mi limito a sperarlo. La domanda dovrebbe essere rivolta a loro.

Attualmente collabora con varie riviste e gruppi di ricerca di Storia socio-economica. C’è un progetto specifico sul quale sta lavorando?

Sto lavorando sulla storia di genere ed ho pubblicato di recente con Andrea Livi Editore il testo “L’emancipazione delle donne nelle Marche del Sud”. Fra l’altro lo stesso Andrea Livi edita la rivista “Marca Marche” che propone tematiche sempre interessanti. Ma il progetto che mi sta impegnando di più è la partecipazione attiva alla cooperativa agricola di Comunità Rocca Madre, che opera nella Valdaso. Nel bel locale di comunità sito a Pedaso, in via Ugo La Malfa 22, distribuiamo i prodotti di piccole aziende impegnate in pratiche agricole rigenerative per la produzione di cibo sano, abbiamo un forno e trasformiamo direttamente le nostre farine di grani antichi in pane, dolci, bun, cracker. “Rocca Madre” è anche un luogo di socialità, di incontro con esperti, di formazione. Vogliamo agire insieme per rigenerare le economie locali, per realizzare filiere corte, per connettere rurale e urbano,  entroterra e costa, consumatori e produttori, per costruire intorno al cibo e all’agricoltura una comunità consapevole di cittadini e consumatori impegnati a ridare prospettive ai nostri paesi, alle botteghe, alle trattorie e ai ristoranti che valorizzano le ricette e gli ingredienti freschi stagionali e locali, ai contadini, alla qualità della vita, al paesaggio della Valdaso. Cerchiamo insomma di non subire inermi la transizione storica, socio, economica e climatica che stiamo vivendo.

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