Al rallentamento sul rilascio dei decreti attuativi alla Legge di Bilancio sorprendentemente non ha corrisposto una frenata dei PIR, che invece hanno sperimentato una crescita di rendimento dopo le difficoltà incontrate nella seconda parte del 2018. Un elemento che ha lasciato senza dubbio gli analisti ad interrogarsi sui motivi di tale balzo in avanti, nonostante i dubbi e le perplessità che hanno accompagnato, fin dalla loro nascita, lo strumento dei PIR. Parliamo di cifre importanti. 59 milioni raccolti nel primo mese dell’anno, percentuali a due cifre per diversi prodotti, quali ad esempio Axa Framlington Italia (del gruppo Axa), che primeggia su tutti con un 12,1% di crescita, seguito da Credit Suisse IF 11 Italy Equity Fund, che si è assestato sull’11,1%, e dal gruppo Amundi, che piazza i suoi Amundi Sviluppo Italia A e B attorno al 10%. Insomma, numeri incoraggianti, a cui fanno da contraltare i lati negativi di una medaglia sempre troppo girevole.
Le novità attese vanno ancor più a rimarcare la natura dei PIR, che già di per sé presenta caratteristiche uniche nel suo genere, almeno nel nostro paese. Nello specifico, la legge di bilancio prevede che il 7% dell’investimento debba essere equamente diviso tra fondi italiani di venture capital e società del paniere AIM, ossia quelle che contano meno di 250 dipendenti e fatturati fino a 50 milioni. Si capisce immediatamente quale direzione tenda ad assumere il PIR, che rischia di diventare un prodotto ancora più rischioso e volatile rispetto a quanto non fosse stato fin qui.
Già, i rischi. Purtroppo, il patriottismo economico implicito nei PIR non può nascondere, nonostante le eccellenti intenzioni, i fattori che rendono questo strumento assai poco alla portata di un piccolo risparmiatore. Non una gran cosa, in effetti, se pensiamo alle offerte messe sul piatto dal mercato, sicuramente molto più allettanti e molto meno scivolose dei PIR. Difficile pensare ad un pensionato o ad un lavoratore medio che vada ad impegnare il proprio denaro in un’impresa di cui non conosce, né prevede, l’esito, e che per altro già in partenza presenta tutte le difficoltà del caso. Come mai questo scetticismo (che comunque, nonostante il buon avvio del 2019, è suffragato dai numeri del 2018)?
I PIR comportano almeno 6 fattori di rischio, che è bene tenere presente qualora si intenda compiere questo passo. Innanzitutto, il vincolo di investire il 70% del capitale in imprese italiane impedisce la diversificazione geografica, che per i consulenti esperti significa sapere quando e dove investire a seconda del vento; una tale concentrazione non mette al riparo da eventuali scarse congiunture, che in Italia conosciamo assai bene. Bassa anche la possibilità di puntare sulla diversificazione dell’investimento, poiché il pacchetto PIR è composto quasi prevalentemente da azioni e obbligazioni. Scadente, infine, il livello di flessibilità, visto che per godere della totale detassazione occorre tenere impegnato il proprio capitale per 5 anni, altrimenti scatta il 26% normale del capital gain. Poi, naturalmente, arrivano i rischi connessi agli oggetti dell’investimento. Le piccole e medie imprese in Italia sono strutture poco trasparenti anche dal punto di vista giuridico, e richiedono una conoscenza del mercato relativo ad esse molto avanzata. Un risparmiatore alle prime armi potrebbe trasformarsi rapidamente nel classico vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro. E chiaramente, parliamo di imprese volatili, non solidissime, soggette a rapidi tracolli e fallimenti.
Insomma, i contro non si fanno attendere e fanno a gara, con buone possibilità di vincere, con i pro. Se poi consideriamo gli ulteriori vincoli previsti dalla legge di bilancio, possiamo renderci conto di quanto occorre ragionare, e a lungo, sullo strumento dei PIR.