SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Un simbolo, amato e odiato, ma comunque un simbolo. Da oltre vent’anni “Lavorare, lavorare, lavorare, preferisco il rumore del mare” campeggia all’ingresso del lungomare di San Benedetto. Un punto di riferimento fotografato da turisti e curiosi, che non rinunciano ad un selfie di fronte ad un monumento che identifica a tutti gli effetti la città marchigiana.
L’opera di Ugo Nespolo, in acciaio e a forma di uovo, venne realizzata ad Acquaviva, per poi essere trasferita in un cantiere nei pressi del porto. Da lì, con l’ausilio di una gru, nel dicembre del 1997 fu piazzata all’inizio di viale Trieste, in prossimità della foce dell’Albula.
Ma come scoccò la scintilla con l’artista piemontese? “Gino Gentile, appassionato di arte contemporanea, mi rivelò di essere amico di Nespolo”, ricorda oggi il sindaco di allora, Paolo Perazzoli. “Mi mostrai disponibile ad un incontro e andammo assieme a Torino, dove il maestro ha un laboratorio di 2 mila metri quadri. In quei giorni era in programma una sua mostra organizzata dalla Regione Piemonte e ne approfittammo per visitarla. Mi colpì subito una serigrafia che riportava la scritta ‘lavorare, lavorare, lavorare, preferisco il rumore del mare’. In origine non era nata come scultura”.
Per il testo, Nespolo si era ispirato ad una poesia di Dino Campana, modificandola leggermente: “Fabbricare, fabbricare, fabbricare, preferisco il rumore del mare. Che dice fabbricare fare e disfare, fare e disfare è tutto un lavorare. Ecco quello che so fare”.
“Lavorò gratis, non volle soldi – continua Perazzoli – coprimmo solo le spese dell’ospitalità. L’unica richiesta fu quella di non effettuare marce indietro in extremis. In seguito apprezzò molto il fatto che fossimo stati di parola”.
L’ex primo cittadino sottolinea come proprio in quel periodo Nespolo fosse reduce da furibonde polemiche a Saint Vincent per delle fontane installate in città, che poi erano state rimosse.
Superato il primo step, l’artista confezionò un primo modellino in legno in miniatura. Il Comune pagò l’acciaio, la pittura e i lavori di fonderia per un totale di circa 115 milioni di lire.
“Un investimento che rifarei domani. Il progetto era ambizioso ed esteso, ossia far diventare il centro un museo di arte contemporanea a cielo aperto, mantenendo alto il livello”.
E così fu. Nespolo trainò altri grandi nomi, a partire da Mark Kostabi. Seguirono Enrico Baj e Salvo, al secolo Salvatore Mangione, quest’ultimo “papà” del celebre ‘elefantino tra le palme’ presente in via Montebello.
Tornando a ‘Lavorare’, all’inaugurazione il padrino fu Renzo Arbore. Nel frattempo, in città era esplosa la rivolta dell’opposizione, con il capogruppo di Alleanza Nazionale Pasqualino Piunti che avviò la raccolta firme per la rimozione. “Ne raccolse tantissime – prosegue Perazzoli – tanto da raggiungere il quorum necessario per il referendum. Era scoppiato il macello, ma la nostra tenacia ci portò a non mollare. Nespolo ci disse che se lo avessimo tolto se lo sarebbe ricomprato”.
Al centro dell’accusa non finì l’opera in senso estetico, bensì il messaggio che conteneva. I detrattori lo definirono “un invito al vagabondare”, rispedito al mittente dal diretto interessato che fornì la sua personale spiegazione: “Il lavoro nobilita l’uomo, ma quando il lavoro diventa lavoro, lavoro, lavoro l’uomo viene schiacciato. E non sempre dal bisogno, ma spesso dall’avidità, dall’invidia, dal desiderio, da finte necessità che ci fanno trascurare i doni più belli che gratuitamente ci circondano. Il mare, così vuole significare tutto ciò che di grande e generoso ci circonda ed è un invito per tutti a non dimenticare i doni di Dio che in ogni istante ci vengono offerti”.
Il referendum alla fine della fiera non si svolse. Le elezioni comunali imminenti e la popolarità crescente del monumento provocò un’inevitabile abbassamento dei toni, con la location presa d’assalto da innumerevoli neo-sposi per le foto ricordo.