SAN BENEDETTO DEL TRONTO. «Lo sport è un bene educativo importante che offre ai giovani nuovi spazi di dialogo e di partecipazione». Sono le parole di Edio Costantini, che dopo una militanza nell’Azione Cattolica italiana è entrato nelle file del Centro sportivo italiano.
Che cosa rappresenta per lei il Csi?
E’ stato per me un’esperienza di vita unica ed emozionante sotto il profilo umano ma anche professionale, culturale e politico. Una gradita esperienza di vita dove sono stato chiamato a dare il meglio di me stesso. Nel Csi ho capito che non tutto lo sport è educativo. Il ritornello ipocrita che “tutto lo sport educa”, spesso ripetuto come un mantra dalle istituzioni, che non investono nella promozione dello sport giovanile riducendolo ad un “prodotto da consumare”, diventa sempre più fastidioso da ascoltare. La stessa cosa vale per tutti coloro che invocano lo sport come rimedio a tutti i mali del disagio giovanile, ma non hanno mai considerato importante la promozione della cultura sportiva a scuola, tanto che il nostro Paese è agli ultimi posti in Europa nella classifica della presenza dell’attività motoria e sportiva in ambito scolastico. Educare con lo sport non è scontato, ma è possibile a patto che lo sport incontri il volto dell’uomo. Allenatori e dirigenti devono essere prima di tutto degli educatori che sappiano promuovere una cultura dello sport fondata sul primato della persona umana. Uno sport al servizio dell’uomo e non l’uomo al servizio dello sport.
Sulla base di questo principio è stato fondato il Csi.
Il grande investimento sull’educazione è all’origine del Csi. Nato nel 1944 all’interno della Chiesa italiana, per opera di Luigi Gedda, medico, scienziato e presidente dell’Azione Cattolica. In questi ottant’anni di vita è rimasto sempre fedele ad una missione: educare con lo sport. Il Csi ha svolto, in Italia, una vera opera educativa che ha affiancato per diverse generazioni, la famiglia, la scuola, la parrocchia, nella costruzione della “comunità delle persone”. Il Csi è stato nel tempo un testimone scomodo nel mondo sportivo, non si è lasciato assimilare e assorbire dalle mode correnti, ha esercitato la sua funzione di coscienza critica e deve continuare a farlo restando fedele alla sua storia. Lo stesso San Giovanni Paolo II ha lasciato al Csi un impegno forte, una missione, quella di non esaurire la propria funzione nella semplice organizzazione e promozione dell’attività sportiva ma quella di andare oltre, poter «contribuire a rispondere alle domande profonde che pongono le nuove generazioni circa il senso della vita, il suo orientamento e la sua meta». In questa affermazione c’è la chiave per interpretare oggi, come ieri, l’impegno del Csi: con lo sport educare al valore della vita. Soprattutto oggi che ci troviamo a fare i conti con una vera emergenza educativa che supera di gran lunga quella economica e politica. Pertanto, l’associazionismo sportivo deve mantenere sempre alto il suo compito educativo. Ciò che i ragazzi, da sempre, chiedono allo sport è di dare innanzitutto senso alla loro vita. Gli atleti, di solito, non percepiscono pienamente i valori educativi dello sport, né tantomeno cosa significhi il senso della pienezza della vita. Giocano perché giocare piace o conviene, ma difficilmente si rendono conto dei motivi, ad esempio perché è bello giocare. Ogni ragazzo intuisce che proprio nella realizzazione dei desideri più profondi del suo cuore, non bastano gli allenamenti, né le vittorie, né le medaglie conquistate. Ci vuole qualcosa di più grande e fare in modo che la pratica sportiva diventi una vera esperienza di vita. Perché ciò avvenga occorre che ad animare lo sport ci siano dei bravi e competenti educatori.
All’interno di questa realtà ha ricoperto diversi ruoli, da segretario fino a diventarne presidente nazionale.
Ho dedicato al Csi i migliori anni della mia vita. Una realtà che ho conosciuto nel lontano 1972. Frequentavo la parrocchia Sacra Famiglia di Ragnola ed ero impegnato nell’Azione Cattolica. L’allora parroco don Mario De Angelis mi propose di costituire una società sportiva parrocchiale e di affiliarla al Csi. La missione della società sportiva era quella di animare la parrocchia, e fu una grande intuizione. Una vera esplosione di partecipazione di giovani e delle loro famiglie. Un vero miracolo per la parrocchia e per Ragnola, allora piccola periferia di Porto d’Ascoli. Il Csi mi ha formato come educatore e come dirigente sportivo, prima locale, poi regionale e poi nazionale. Nel 1992 fui chiamato a Roma dove ho ricoperto i ruoli di segretario, vice-presidente e presidente nazionale. Una grande avventura, “politicamente” impossibile per un giovane di periferia se non avessi avuto il sostegno e la forza della Provvidenza di Dio. Sicuramente ho ricevuto molto di più di quanto abbia dato.
C’è stato un episodio da quando fa parte di questo Movimento sportivo cattolico che conta oltre un milione di tesserati, al quale è più legato?
Ripercorrere all’indietro le tappe più interessanti del cammino fatto all’interno dell’associazione non è facile. Sicuramente ho incontrato delle persone eccezionali. Ho avuto modo di collaborare con diversi organismi del Vaticano e incontrare tre pontefici: San Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Papa Francesco. Tra i tanti ricordi, porto nel cuore un evento particolare: era il 23 aprile 2004, l’anno della prima edizione della “Maratona della pace” da Gerusalemme a Betlemme. La Conferenza Episcopale italiana, su invito del Ministero del Turismo israeliano decise di organizzare un evento sportivo per riportare i pellegrini in Terra Santa durante il periodo della seconda intifada combattuta tra il 2000 e il 2005. L’organizzazione dell’evento fu affidata al Csi. Forse non è stata la più famosa tra le maratone, ma certo fu quella che ha invitato maggiormente i partecipanti a “riflettere” oltre che a correre. In questo senso è stata sicuramente una delle maratone più speciali da correre. Infatti, in quell’occasione, l’evento sportivo servì per riaprire i rapporti tra gli israeliani e i palestinesi. La corsa fu un pretesto per gli israeliani di ricominciare a parlare con i palestinesi e, per noi italiani, circa 400, per prendere coscienza di ciò che stava accadendo in quella terra. Un percorso di 12 km con partenza dalla piazza antistante la Chiesa della Natività di Betlemme passando attraverso un checkpoint israeliano fino ad arrivare a Gerusalemme. Il fatto straordinario di quella maratona fu di assicurare agli atleti palestinesi la possibilità di partecipare alla corsa e attraversare liberamente il muro per arrivare a Gerusalemme. L’emozione che provammo fu indescrivibile, fortissima. Un misto di gioia e piacere che ricorderò per tutta la vita. Ho visto ragazzi piangere dalla gioia. Per alcuni di loro fu l’unica occasione per vedere Gerusalemme. Per quasi dieci anni ho raccontato questa corsa simbolica. Oggi la corsa non si fa più: il muro ha raggiunto quasi la lunghezza di mille chilometri e la pace è sempre più lontana.
Importanti le sue collaborazioni con la Conferenza Episcopale Italiana attraverso l’Ufficio Nazionale della Pastorale dello sport e tempo libero e con il Vaticano attraverso il Pontificio Consiglio per i Laici e della Cultura. A suo avviso che momento stanno vivendo i giovani?
Ciò che stanno vivendo i giovani può essere descritto con le parole di Michele Federico Sciacca: “La nostra epoca rumorosa è senza silenzi, senza armonie. Povera di parole, ricca di voci. Viviamo dispersi nella dispersione di mille cose inessenziali”. Oggi, forse più di ieri, è difficile tracciare un loro identikit. Più che mai le loro identità sono multiple, plurime, complesse e fortemente dinamiche e i loro sogni altrettanto. L’Italia è attraversata da una grande emergenza. Non prettamente politica o economica, a cui i politici legano la possibilità di “ripresa” del Paese, ma è l’educazione e riguarda ciascuno di noi, ad ogni età, perché attraverso l’educazione si costruisce la persona, e quindi la società. Non è solo un problema di istruzione o di avviamento al lavoro. Sta accadendo una cosa che non era mai accaduta prima: è in crisi la capacità di una generazione di adulti di educare i propri figli. Per anni dai nuovi pulpiti, ovvero scuole, università, giornali e televisioni, si è predicato che la libertà è assenza di legami e di storia, che si può diventare grandi senza appartenere a niente e a nessuno, seguendo semplicemente il proprio gusto o piacere. È diventato normale pensare che tutto è uguale, che nulla in fondo ha valore se non i soldi, il potere e la posizione sociale. Si vive come se la verità non esistesse, come se il desiderio di felicità, di cui è fatto il cuore dell’uomo, fosse destinato a rimanere senza risposta. È stata negata la realtà, la speranza di un significato positivo della vita, e per questo si rischia di crescere una generazione di ragazzi che si sentono orfani, costretti a camminare come sulle sabbie mobili, bloccati di fronte alla vita, annoiati e a volte violenti, comunque in balia delle mode e del potere. Ma la loro noia è figlia di una cultura che ha sistematicamente demolito le condizioni e i luoghi stessi dell’educazione: la famiglia, la scuola, la Chiesa. Educare, cioè introdurre alla realtà e al suo significato, mettendo a frutto il patrimonio che viene dalla nostra tradizione culturale, è possibile e necessario, ed è responsabilità di tutti. Occorrono maestri, e ce ne sono, in grado di insegnare ai giovani a stimare e amare se stessi e quello che li circonda. L’educazione comporta un rischio ed è sempre un rapporto tra due libertà. Un concetto che è possibile trovare nel libro “Il rischio educativo” scritto da don Luigi Giussani.
Da anni è al fianco delle vittime di usura presiedendo la onlus “Fondazione Monsignor Traini”. Qual è la situazione oggi a riguardo?
Dieci anni fa, era da poco tornato da Roma, l’allora Vescovo diocesano, Mons. Gervasio Gestori, mi affidò la guida della Fondazione Antiusura Mons. Traini. Anche questa è una bella esperienza che sto portando avanti con determinazione e generosità. Ho avuto modo di conoscere più in profondità alcune problematiche che riguardano l’indebitamento e di conseguenza il dramma che vivono un numero sempre maggiore di famiglie. Da una parte abbiamo l’emergenza lavoro e dall’altro il gioco d’azzardo, l’uso del denaro in modo disinvolto e sconsiderato. La continua offerta di nuove forme di pagamento che facilitano l’acquisto di beni (pagamento a rate, carte pre-pagate, credito al consumo ecc.) che, portando il soggetto a superare la reale disponibilità economica, promuove, inevitabilmente, una cultura del debito e del consumismo. Sono problematiche che vanno prevenute e affrontate con determinazione altrimenti si scivola nella povertà. Ci sono diverse persone disoccupate e che hanno creduto nell’illusione del gioco d’azzardo come soluzione a tutti i problemi economici causando un sovraindebitamento tanto da dover ricorrere all’usura come l’unica spiaggia di approdo della disperazione personale o imprenditoriale. In questa ottica si colloca l’operatività della Fondazione Mons. F. Traini contro l’usura, cioè, garantire attraverso fondi statali, l’opportunità di accesso al credito alle famiglie in difficoltà economica, ai cosiddetti soggetti “non bancabili” a tassi di interesse favorevoli. Nella situazione di emergenza attuale, che prima di essere economica è culturale e morale, poter garantire alle famiglie in difficoltà momentanea, il diritto al credito, significa aiutarle a farle sentire parte integrante di una comunità.