di Luigina Pezzoli
SAN BENEDETTO DEL TRONTO. Denis Curzi, maratoneta italiano, ha vinto un titolo nazionale e conta nove presenze in nazionale.
Quante emozioni le ha regalato questo sport?
Me ne ha regalate tante. La prima grande emozione è stata quella di riuscire a far parte del Centro sportivo carabinieri di Bologna. Successivamente raggiungere il traguardo della nazionale Italiana assoluti e la vittoria della maratona internazionale di Treviso nel 2005 e 2008: ho coronato il mio sogno. Anche se in realtà, ogni gara, ogni allenamento e ogni esperienza vissuta, mi hanno regalato delle grandi emozioni che porterò sempre con me e cercherò di trasmettere ai ragazzi che hanno voglia di mettersi in gioco.
E i sacrifici?
I sacrifici erano all’ordine del giorno. Ne ho fatti tanti, raggiungere l’obiettivo non è stato semplice. Dopo la morte di mio padre a 18 anni, finite le scuole superiori, decisi di andare a lavorare, lasciando in sospeso il sogno di diventare un top atleta. In quel periodo la corsa rimaneva solamente una passione che mi portavo dietro fin da bambino. Col passare del tempo e perseverando negli allenamenti, mi sono ritrovato, un po’ alla volta, a confrontarmi coi grandi atleti del momento, che sono diventati, successivamente, prima amici e poi colleghi. Decisi così di lasciare il lavoro e dedicarmi a tempo pieno all’atletica, per me, si aprivano le porte del professionismo.
Quante ore si allenava al giorno in vista delle competizioni?
Mi allenavo circa 13 volte alla settimana, festivi compresi. Per quanto possa sembrare impegnativo, non mi è mai pesato questo stile di vita.
Oggi si allena ancora come prima?
No, adesso cerco di ritagliarmi 2, 3 allenamenti all’aria aperta senza orologio per il puro piacere di correre, senza particolari obiettivi, mi godo quel momento tutto mio. Negli ultimi anni mi hanno coinvolto, devo ammettere con estremo piacere, nella grande avventura della maratona di New York. Accompagno gli amatori regalando qualche consiglio, percorrendo questi 42 km senza obiettivi sul cronometro, mi godo ogni metro, il pubblico, i ristori, la città e la compagnia.
Il momento più difficile della sua carriera.
I momenti più difficili sono legati agli infortuni che non ti permettono, purtroppo, di proseguire. Il più serio fu dopo i mondiali della mezza maratona a Veracruz (Messico), nel 2000: stiramento grave al soleo e così rimasi fermo per sei mesi. Il post infortunio è quasi peggio perché devi cercare di recuperare il più velocemente possibile. Oltre a rispondere a me stesso, dovevo rispondere al gruppo sportivo dei Carabinieri che aveva investito su di me.
Quando ha scoperto questa disciplina?
La mia prima esperienza fu a 8 anni. Mio padre mi accompagnò ad una gara per bambini, tipo marcialonga, dove inaspettatamente vinsi senza aver mai corso. Forse fu questa la mia prima grande emozione. Il mio vero approccio con la disciplina, invece, fu all’età di 17, quando cominciai ad allenarmi con degli obiettivi.
Lei oggi è anche un preparatore. Quali sono i consigli principali che non manca mai di dare?
Attualmente collaboro come tecnico l’Atletica Collection Sambenedettese, alleno un gruppo di ragazzi e ragazze che praticano mezzofondo, tra cui il mio secondo figlio Mattia di 15 anni. Cerco di spronare i ragazzi a credere in se stessi. Per raggiungere qualsiasi obiettivo ci vuole abnegazione, cercare di trovare nella fatica degli allenamenti il divertimento. È di fondamentale importanza, per i giovani, trovare un allenatore che creda nelle loro potenzialità, e il mio compito è cercare di essere per loro quello che il mio allenatore, il professor Romano Tordelli, è stato per me. Gli devo tutto. Spero di riuscire a trasmettere i suoi insegnamenti a questi ragazzi, anche solo per ritrovare nei loro occhi, l’amore e la passione che ho avuto e continuo a nutrire per questa disciplina.