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Omicidio di San Benedetto, la preoccupazione di un lettore. La risposta del direttore: “Dobbiamo ragionare come comunità”

La preoccupazione di Alfredo sulla situazione che ha portato al tragico fatto di sangue
Pubblicato il 19 Marzo 2025



Pubblichiamo la lettera, firmata, di Alfredo. Un nostro lettore che è intervenuto dopo il tragico omicidio avvenuto nella notte tra sabato e domenica sul lungomare di San Benedetto. Quindi, a seguire, la risposta del direttore.

Caro Direttore Lattanzi,

Quello che è successo a San Benedetto del Tronto negli ultimi giorni è qualcosa di mai visto prima. Un ragazzo accoltellato a morte, una rissa con armi da taglio, giovani che si affrontano in strada in piena notte come se fosse normale. Ma non lo è.

Non voglio dire che prima fosse il paradiso. La città ha sempre avuto i suoi problemi. Oggi parliamo di violenza vera, di sangue versato per strada, di una situazione che sembra ormai fuori controllo.

Mi chiedo: com’è possibile che si sia arrivati a questo punto? Quando abbiamo smesso di accorgerci che le cose stavano peggiorando? Perché nessuno ha fatto nulla prima che succedesse una tragedia?

Adesso, come sempre, tutti parlano di sicurezza. Servono più controlli, più forze dell’ordine, più regole. E va bene, è giusto. Ma siamo sicuri che basti? Io penso che il problema sia più profondo. Questi ragazzi, quelli che girano con i coltelli in tasca, quelli che non hanno paura di usare la violenza, cosa hanno davanti? Hanno una città che gli offre delle alternative? O gli lasciamo solo la strada, i locali, l’alcol, la notte?

San Benedetto deve riprendersi. Non possiamo abituarci all’idea che la nostra città diventi un posto dove la gente ha paura di uscire, dove i giovani si ammazzano tra loro per motivi futili.

Spero che chi deve prendere decisioni lo faccia in fretta. Ma soprattutto, spero che tutti noi ci fermiamo un attimo a riflettere. Perché la sicurezza non è solo una questione di polizia. È qualcosa che riguarda tutti noi.

Alfredo, San Benedetto
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Caro Alfredo,

la sua preoccupazione è giusta e comprensibile. Così come lo è la gravità assoluta di quanto accaduto. Un ragazzo di ventiquattro anni è morto, accoltellato durante una rissa scatenata – sembra – da motivazioni futili, e questa è una verità che pesa come un macigno. Ma c’è un’altra verità che non possiamo ignorare: questo è un episodio isolato. Non perché non sia grave, ma perché non è l’effetto di un fenomeno radicato, come qualcuno vorrebbe far credere.

Ciò non significa negare che oggi sempre più ragazzi escano di casa con un coltello in tasca. È un dato di fatto, ed è una deriva pericolosa che deve far riflettere tutti. Ma è sbagliato cercare sempre un colpevole unico, puntare il dito con la presunzione di chi ha già trovato la spiegazione perfetta, magari scegliendo la più comoda e immediata.

È sbagliato dire che “ci voleva il morto” per ottenere l’elevazione del Commissariato a primo livello. È una frase che suona male, e soprattutto è falsa. Perché chi ieri ha annunciato l’inizio di un iter atteso da vent’anni – dal Presidente della Regione Francesco Acquaroli, al Consigliere Regionale Andrea Assenti, fino alla Sottosegretario Lucia Albano, e lo stesso Sindaco Antonio Spazzafumo – sapeva benissimo di cosa stesse parlando. Non lo dico io, lo dicono gli stessi sindacati di polizia che da sempre chiedono l’ottenimento di questo traguardo e che, evidentemente, sanno perfettamente quale sia stato l’iter che ha portato a questo risultato.

La tragedia della notte tra sabato e domenica ha certamente accelerato quel processo, ma non lo ha causato. E non posso unirmi a chi sostiene che oggi si stia “cavalcando” la situazione. Non posso farlo perché San Benedetto non è mai stata un Comune con un Commissariato di primo livello, e soprattutto perché non è la prima volta che “ci scappa il morto”. È giusto ricordare gli anni di piombo come un periodo a sé stante, ma chi ha memoria storica sa che San Benedetto ha conosciuto rapine finite con scontri a fuoco letali, omicidi passionali, episodi di violenza che hanno segnato la città.

Quello che è accaduto stavolta è un episodio di violenza finito nel peggiore dei modi. E deve suscitare non panico, ma preoccupazione profonda. E, prima di tutto, un sentimento che oggi vedo quasi assente: il cordoglio.

Un ragazzo di ventiquattro anni si è perso per strada. Come tanti altri prima di lui. Come quei giovani degli anni in cui San Benedetto era sommersa dall’eroina, come chi ha fatto scelte sbagliate e non ha avuto il tempo di correggerle. Eppure, quel ragazzo – Amir Benkharbouch – sembra non meritare nemmeno questo, nemmeno il cordoglio.

Lo vedo nei commenti sui social, nei discorsi pieni di livore: quel corpo senza vita è stato subito giudicato, marchiato, dimenticato. Amir non ha nessuno che lo difende. Non lo ha avuto in vita e non lo ha nemmeno adesso che è morto. Il suo nome già basta a renderlo un bersaglio perfetto. Il processo per tentato omicidio in cui era coinvolto è la ciliegina sulla torta per chi cerca una giustificazione per sputargli addosso, per chi pensa che la sua morte sia qualcosa di meno grave, meno degno di pietà.

Eppure, la morte non si pesa sulla bilancia del merito. Un ragazzo è morto. Punto. E quello che vedo oggi mi fa pensare che Virgilio avesse ragione: Timor addidit alas. La paura ci dà le ali, ci fa sentire più forti, ci fa credere di avere la verità in tasca. Ma la paura, quando è mal indirizzata, ci rende anche più ciechi.

E allora mi chiedo: di cosa dovremmo davvero avere paura? Io, ad esempio, ho più paura di chi descrive San Benedetto parlando di una “lotta per la piazza di spaccio“, come se fossimo a Ostia in un film di Caligari. E ne ho paura perché a monte c’è chi strumentalizza questa vicenda, provando evidentemente a tirare per la giacchetta pure la stampa per evitare che certe categorie di “esercenti” vengano coinvolti nel dibattito.

San Benedetto oggi deve ragionare come comunità, e non farsi trascinare in una guerra politica che non serve a nulla, se non a dividere ancora di più. Il Commissariato è diventato di primo livello? Bene. Ma se proprio non si vuole ringraziare chi ha lavorato per questo risultato, almeno si taccia. Perché in questa città, di motivi per fare polemica ce ne sono tanti altri. Questo, francamente, dovrebbe essere quello sbagliato.

Emidio Lattanzi