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Enrico Melonari: per il sambenedettese d’adozione una vita tra tv, reportage e passioni senza confini

Con la sua voce profonda e il suo baffo imponente, ripercorre con noi la sua vita e i suoi racconti fantastici di una carriera vissuta in giro per il mondo
Pubblicato il 25 Gennaio 2025

di Alessandro Croci

Enrico Melonari, giornalista produttore per le 20h France, romano di nascita ma sambenedettese d’adozione, amante della musica e dello spettacolo, classe 1944. Con la sua voce profonda e il suo baffo imponente, ripercorre con noi la sua vita e i suoi racconti fantastici di una carriera vissuta in giro per il mondo.



Enrico, come è iniziata la sua carriera nel mondo della televisione e dello spettacolo?
La mia carriera è cominciata saltando una lezione di inglese… ancora oggi mi viene da ridere. Incontrai questa amica che mi propose di andare a una festa, ed è lì che incontrai una signora di nome Vera Pescarolo, una grande produttrice del tempo. Il caso volle che avessero bisogno di una persona per aiutarli nella produzione di alcuni documentari che all’epoca andavano molto di moda. Lavorai per loro per quattro anni, prima di partire per il militare nel 1964. Tornai nel 1969 e il fratello di Vera mi chiamò per dirigere uno stabilimento di produzione con circa 30 persone che ci lavoravano. Ci occupavamo di diversi programmi per la RAI, tra cui ricordo “Panorama Italiana”, un programma dedicato agli italiani all’estero. Con quel programma ebbi anche la fortuna di conoscere una persona che mi svoltò la carriera.

Lei per “svolta” intende l’inizio della collaborazione con la TV francese?
Sì, con quel programma conobbi il corrispondente della televisione francese, che era un nostro cliente. Non avendo un ufficio di corrispondenza, si appoggiavano alla RAI e venivano da noi nel nostro stabilimento. Grazie a questo giornalista conobbi un pezzo grosso della TV francese, e quando aprirono la sede della televisione francese a Roma, sapendo che ero abituato a organizzare servizi, speciali e documentari, mi chiesero se potevo essere il produttore della sede di Roma. Da lì cominciò una splendida collaborazione fino al 2008.

In cosa consisteva il suo lavoro?
Allora, io il giovedì preparavo una lista con diversi servizi da fare. Loro, da Parigi, analizzavano tutto nella riunione di redazione e sceglievano quali realizzare. Mi ricordo soprattutto servizi sulla società, più leggeri, ma anche sul rapimento Moro e su quel periodo delle stragi. Devo dire che con i francesi si lavorava davvero bene: c’era un’ottima organizzazione. Se c’era un problema, si parlava direttamente con i vertici e, nel giro di 10-20 minuti massimo, il problema era risolto.

Ha seguito pure la guerra in Jugoslavia. Come è stato raccontarla?
Quando arrivai, la Slovenia si era già liberata. Arrivai senza confine e tornai con il confine. Fu un’esperienza molto dura a livello morale: la guerra porta sempre tanta sofferenza. Mi ricordo che lì avevamo un mezzo chiamato “Tiktok”, un apparecchio valigetta che pesava 20 chili e che faceva da antenna e satellite per i collegamenti in diretta. Erano davvero altri tempi. Oggi le guerre vengono riprese con i telefonini e postate subito sui social; prima era tutto molto più complicato.

Da produttore a giornalista che seguiva il Papa: come ci è arrivato?
Nel 1994 il corrispondente morì in un incidente stradale, e rimasi un anno senza un giornalista fisso. Ogni due-tre mesi mandavano giù qualcuno che poi puntualmente tornava alla base, a Parigi. Così proposi alla redazione di seguire il Vaticano in prima persona. Mi accreditai nella sala stampa per seguire Papa Giovanni Paolo II nei suoi viaggi, dal 1995 al 2008.

In quanti viaggi ha seguito il Santo Padre? E che esperienza è stata?
Ho seguito il Santo Padre in 65 nazioni diverse. Sono stato in Turchia, Brasile, Israele, Australia, Austria, Slovenia, Polonia, India e molti altri Paesi ancora. Ma il viaggio più bello fu quello in Israele, un Paese stupendo dove capisci perché le religioni sono nate lì. Seguire il Papa in questi viaggi è stato qualcosa di straordinario. Ho avuto anche il piacere di intervistare Madre Teresa di Calcutta.

E Madre Teresa, cosa le ha trasmesso?
Nonostante fosse una donna molto minuta e magra, quando le stringevi la mano sentivi le ossa. Però emanava una forza, una potenza, una maestosità che non trasmetteva nemmeno Papa Giovanni Paolo II. Pensa che ho una foto con entrambi, e oggi sono tutti e due santi.

Ha un ricordo particolare con Giovanni Paolo II?
Sì, dopo diversi anni che lo seguivo, volevo una foto con lui. Chiamai il segretario in vista dell’organizzazione di un viaggio, mi pare fosse il 1998, e il Santo Padre era già malato. Chiesi gentilmente se, durante il volo, potessi fare una foto con lui. Prima della partenza fui chiamato dall’addetto stampa del Vaticano, Navarro, e andammo dal Papa. L’addetto stampa disse: “Santità, c’è Melonari della televisione francese che vorrebbe fare una foto con lei perché va in pensione.” La risposta del Papa fu: “Allora è vecchio anche lei!” Scoppiammo tutti a ridere, e ci facemmo questa bellissima foto. Giovanni Paolo II era davvero una persona simpatica, con la battuta sempre pronta, anche durante la sua brutta malattia.

Il suo legame con San Benedetto?
Mio padre e mia madre erano di San Benedetto. Poi c’è un legame tra me, San Benedetto e il cinema. Da bambino giocavo con Ugo Pirro qui sulla riviera, dove lui abitava per via del lavoro del padre. Sempre qui conobbi Giuseppe Scotese, regista e scrittore. Insomma, da bambino San Benedetto è stata importante per me anche per le conoscenze fatte qui. Quando sono andato in pensione, il 1° maggio 2008, sono tornato a vivere qui. Ho anche realizzato un documentario sulla Porta Santa, realizzata da Paolo Annibali, un grande maestro. San Benedetto è un luogo in cui si vive bene, con il mare. Sono un appassionato di barche e ne ho avute diverse, una delle mie più grandi passioni.

Una carriera in giro per il mondo. Si sente realizzato? E cosa si sente di dire alle nuove generazioni?
Io nella mia vita sono stato un uomo molto fortunato, perché non ho mai lavorato. Uscivo sempre felice per andare a lavorare, sempre con entusiasmo. Ho superato certi momenti difficili, come in Libia, nel regime di Gheddafi, quando passai una notte in carcere, o in Brasile, o nella guerra dei Balcani. Questo è stato possibile grazie alla volontà, alla determinazione e alla passione che avevo dentro di me. Un consiglio che mi sento di dare, come ripeto sempre ai miei nipoti, è di non fare un lavoro per il denaro, ma per la passione che si mette mentre si lavora.