Una svolta netta, che cambiò la storia della lotta armata in Italia, arrivò da un sambenedettese. Il pentimento di Patrizio Peci, all’epoca capo colonna della Brigate Rosse a Torino, avvenuto il 1° aprile 1980 nella caserma dei Carabinieri di Cambiano, fu – nelle parole dell’ex magistrato Gian Carlo Caselli che ha ricordato sul Corriere della Sera quegli anni – un momento decisivo per disarticolare il terrorismo.
«Ammettiamolo. Molte volte abbiamo pensato che non ce l’avremmo fatta», scrive Caselli ricordando quei giorni drammatici. Torino era una delle città più colpite, con una fitta rete di fabbriche e un forte radicamento politico che i brigatisti consideravano il terreno ideale per la loro strategia. «Una città operaia. E comunista. Nella quale i terroristi credevano di scorgere il loro palazzo d’inverno, da espugnare a colpi di gambizzazioni e omicidi».
Mentre una parte dell’opinione pubblica cercava giustificazioni, parlando di «compagni che sbagliano» o rimanendo sospesa in un ambiguo «né con lo Stato né con le Br», per Caselli non c’erano dubbi: «Ci sono stati soltanto assassini con il coraggio della viltà».
Il racconto si sofferma anche sul clima di crisi interna alle BR, accelerata dal fallimento politico seguito alla vicenda Moro e da processi che, contrariamente a quanto credevano i brigatisti, si conclusero con condanne «nel rispetto di tutte le regole». Fu proprio in quel contesto che, secondo Caselli, «a poco a poco tutto cambia».
Il pentimento di Peci – raccolto da Caselli insieme ai colleghi Mario Griffey e Alberto Bernardi – rappresentò un punto di rottura irreversibile. «Confessando tutto quel che occorreva sapere per disarticolare le Br», scrive l’ex procuratore, Peci contribuì non solo alla caduta della colonna torinese ma anche «offrendo spunti investigativi per intervenire sul versante Pl accelerandone la fine».
Il gesto di Peci, però, ebbe conseguenze devastanti anche sul piano personale. Le Brigate Rosse, ritenendo che il fratello Roberto lo avesse aiutato, lo sequestrarono e lo giustiziarono dopo un finto “processo proletario”. Ma per lo Stato italiano, la scelta di Patrizio Peci segnò l’inizio della fine di una lunga stagione di sangue.