GROTTAMMARE. Enrico Piergallini, sembra quasi impossibile scrivere il suo nome senza associarlo alla parola sindaco. Ormai sono trascorsi alcuni mesi da quando, dopo 20 anni, di cui dieci da primo cittadino, ha terminato il suo impegno amministrativo a Grottammare per indossare, di nuovo, quelli da professore. Cosa le manca di più di quel periodo e cosa assolutamente no?
Bene, cominciamo con la domanda più difficile. Che dire? Per vent’anni vita pubblica e vita privata si sono fuse, perciò in questi mesi ho dovuto programmare da zero le mie giornate. Non è facile nemmeno scindere il sentimento della nostalgia che si mescola alla sensazione di sollievo, non so spiegarlo altrimenti. Mi mancano soprattutto i rapporti personali che ho costruito in tanti anni con gli amministratori, i dipendenti del Comune, i cittadini. Ora sono meno frequenti, ma sto tentando comunque di mantenerli vivi, anche nella distanza. Non mi mancano né la “fascia”, né la “poltrona”, insomma il ruolo da sindaco: ho sempre saputo che dovevo tenere distinta la mia identità dal ruolo che ricoprivo, l’Enrico Piergallini che sono dal “sindaco Piergallini”. Se uno confonde troppo le cose, poi rischia di non riuscire più a dividerle, rischia di non sapere più chi è veramente. E poi giunge per tutti il momento in cui è meglio farsi da parte per lasciare spazio ad altri: è un passaggio necessario, di cui non bisogna avere paura.
Qual è l’iniziativa realizzata durante il suo mandato della quale va più fiero?
Concedimene due. Innanzitutto, il nuovo accesso al Vecchio incasato: fino a poco tempo fa era tutto asfalto, c’era un parcheggio dove ora si trova il Largo di Porta Maggiore. Non era un ingresso degno di uno dei Borghi più belli d’Italia. Ricordo ancora con emozione quando durante i lavori abbiamo riportato alla luce i resti archeologici dell’antica porta cittadina. La riqualificazione del Vecchio ospedale, poi, ha chiuso il cerchio, perché ha tolto una bruttura proprio sulla soglia del nostro borgo e ha restituito alla città un luogo per la cultura e le attività del comune. La seconda iniziativa, poi, è ovviamente la riqualificazione del lungomare della Repubblica. Ho faticato molto per fare in modo che il nuovo lungomare fosse aperto per la conclusione del mio mandato. Prima era uno spazio molto invecchiato, ora è un luogo che presenta nuove aree per giocare, nuove piazze per socializzare, un museo all’aperto per ammirare le sculture e l’arte, un luogo da leggere per conoscere la storia grottammarese. Insomma, un’opera culturale, più di una semplice riqualificazione pubblica. Poteva essere fatto diversamente? Certo, chi lo nega, tutto è migliorabile. Ma si tratta comunque di un gigantesco passo avanti rispetto a quello che c’era prima.
In tutti questi anni qual è stata la scelta più difficile da prendere?
Chiudere tutti i luoghi della cultura, della socialità, della formazione a causa dell’emergenza sanitaria, dopo aver lavorato tanti anni per tenerli sempre aperti e potenziarli. Ma quella fu una scelta obbligata. Voglio raccontarti, piuttosto, una scelta più personale. Primavera, quasi estate 2020: ormai si cominciava a capire che la pandemia non sarebbe durata mesi, ma anni. Fui preso dallo sconforto, perché con molta probabilità tutto il mio secondo mandato sarebbe stato dedicato alla gestione dell’emergenza. Dovevo decidere se rassegnarmi ad accettare tutto ciò come un destino, rinunciando alla realizzazione di alcune opere simboliche del programma elettorale, oppure rilanciare, raddoppiare lo sforzo, scommettere sul futuro e provare a trasmettere questa fiducia anche agli altri amministratori e a tutta la struttura comunale. Scelsi di rilanciare, perché non volevo essere ricordato soltanto come il sindaco che aveva gestito la pandemia. Tra il 2020 e il 2023 siamo riusciti a completare il nuovo asilo nido, il nuovo accesso al Vecchio incasato, il secondo piano della scuola Speranza, la nuova piazza Stazione, la riqualificazione di via Matteotti, il nuovo Parco del Colle e soprattutto il nuovo lungomare. Solo a ricordarlo mi vengono i brividi, non so dove ho trovato la forza. Pensare che mi dicevano che il secondo mandato sarebbe stato in discesa.
Le capita ancora che i cittadini la fermino per strada?
Certo ed è un grande piacere. Quando mi raccontano i loro problemi, ovviamente li metto in contatto con gli amministratori in carica, perché è giusto che un ex sindaco non sia invadente o troppo presente, altrimenti diventa un rompiscatole. La maggior parte dei cittadini, però, mi ferma solo per salutarmi, per scambiare due chiacchiere, per ringraziarmi del lavoro svolto: ho raccolto tanto affetto in questi mesi. Qualcuno mi ha detto persino che, pur non avendomi votato, ha sempre nutrito stima e rispetto per me. È una grande gratificazione personale, perché pur avendo commesso degli errori le persone hanno riconosciuto che in questi anni ce l’ho messa proprio tutta per fare del mio meglio. Molti mi dicono che da quando ho smesso di fare il sindaco mi sono ringiovanito. Mah, sarà. Io comunque sto allo scherzo e rispondo: “Ovvio, mi sto disintossicando!”
“La mia parte. Dieci anni da sindaco”, s’intitola così il libro che ha scritto e che si è autofinanziato in cui ripercorre la sua esperienza amministrativa. Qual è il messaggio principale che vuole mandare al lettore attraverso queste pagine?
Vorrei che generasse un cambiamento in chi lo legge. Se non tenta di fare questo, un libro ha poco senso. Ad esempio, vorrei che coloro che hanno il grilletto della critica un po’ troppo facile, soprattutto nei social, capiscano, leggendolo, che le questioni sono sempre più complesse di quanto si possa pensare e che decidere per un’intera comunità non è mai semplice. Vorrei, invece, convincere quelli che hanno perso la speranza, che pensano che tanto nulla può cambiare, a tornare a credere nella buona politica, perché quando essa è onesta ed efficace riesce a trasformare la realtà circostante, o almeno ci prova. E poi mi piacerebbe molto che lo leggessero i più giovani: ero un ragazzo anch’io quando ho iniziato la mia esperienza in Comune. A loro dico di non distrarsi troppo, di non disinteressarsi di ciò che accade nel mondo, di essere sempre vigili e di riempire gli spazi della politica con l’impegno e le migliori energie, perché altrimenti questi spazi li occupano gli altri, i peggiori, che comunque decideranno per tutti. Ognuno deve fare la sua parte, anche piccola o piccolissima, perché come dice Zygmunt Bauman (ma potrei citare anche Papa Francesco, che ha parole altrettanto magnifiche sull’argomento) “Nulla di quello che facciamo o non facciamo è irrilevante per il destino di chiunque altro, nessuno di noi può più cercare e trovare riparo individualmente dalle tempeste che nascono in un punto qualsiasi del pianeta”.
Come è stato sedersi di nuovo dietro una cattedra? Dopo tutti questi anni ritiene che la scuola sia in qualche modo cambiata?
Potrebbe sembrare strano, ma il passaggio da insegnante ad amministratore pubblico, e viceversa, non è poi così drastico: la scuola, infatti, è lo spazio politico per eccellenza, non perché dentro le classi si faccia politica, figuriamoci, ma perché è lì dentro che si forma il futuro della nostra polis, di tutti noi. È cambiata, certo, ma non a sufficienza: la società cambia più rapidamente e la scuola fa fatica a stargli dietro, anche perché non è stata affatto supportata dai governi. Comunque non bisogna lamentarsi, si lavora con quello che c’è. Per fare un esempio: dopo dieci anni ho trovato in ogni classe un computer e una digital board, strumenti che aprono un mondo per l’insegnante. Puoi fare un’ora di lezione intrecciando parole, video, immagini e dati attinti istantaneamente dalla rete. Siamo distanti anni luce dal vecchio modo di fare lezione: puoi trasmettere ai ragazzi la meraviglia e l’attualità dell’Eneide, scritta più di duemila anni fa, usando linguaggi e strumenti molto più vicini a loro. Quando vedi che la conoscenza riesce ad accendere i cuori, ai giovani iniziano a brillare gli occhi e questo per fortuna non è cambiato. Cambiare il proprio modo di insegnare, invece, serve anche a lottare contro il cattivo uso del cellulare, il vero avversario con cui dobbiamo fare i conti in ogni classe. Bisogna insegnare ai ragazzi a controllarlo, non ad esserne controllati. È questa la più importante battaglia educativa che dobbiamo combattere per il nostro futuro.