GROTTAMMARE – Il maestro Francesco Colella nasce a San Benedetto del Tronto nel 1966. Esordisce a Grottammare nel 1999 e da lì in poi la sua arte vedrà mostre e riconoscimenti che ne consacreranno il valore sul territorio nazionale: abbiamo voluto indagare su come la sua produzione si intrecci alle nuove tecnologie e alla sua disabilità.
Lei si definisce un artista?
Definirsi un artista mi è sempre sembrato un atto di presunzione assoluta, io dipingo perché ne sento il bisogno, dipingo per me, per trasmettere su tela ciò che sento, senza seguire le mode del momento, solo ciò che voglio. Artista è una definizione che ti dà qualcun altro quando diventi riconoscibile dalla tua pennellata, dai tuoi colori, dai soggetti che rimangono coerenti nel tempo.
Di cosa parlano i suoi quadri? Quali emozioni trasmette la sua opera?
I soggetti che preferisco sono spesso immagini nostalgiche, quadri che parlano del duro lavoro che l’uomo deve sopportare per sopravvivere. Ho scelto spesso di dipingere il sacrificio nelle scene di vita dei marinai, la speranza nei voli liberi dei gabbiani che sfidano la tempesta diretti verso la luce, l’infinito. Poi ci sono i miei nudi, accovacciati su sé stessi nel tentativo di un dialogo interiore, e i cavalli liberi, simbolo del viaggio alla ricerca di un momento perfetto.
Social e tecnologia hanno aperto una finestra sul mondo dell’arte e inaugurato un nuovo modo di produrla e concepirla: lei cosa ne pensa?
I social sono sicuramente importanti per il mondo dell’arte soprattutto per vedere ciò che accade nel panorama artistico; confrontarsi è sempre interessante. Io uso il web per esporre i miei lavori, è come avere una sala espositiva sempre attiva. Per il resto non amo stare molto in rete, a volte mi sembra tutto un enorme caos.
Tavoletta grafica o tela e pennello? Perché?
L’arte digitale non mi si addice, è come bere una birra analcolica pensando che sia uguale a quella normale; mille volte il pennello, il gesto, la materia grazie alla quale l’artista, con fatica e spesso con sofferenza, riesce a dare vita all’opera. La sensazione è impagabile.
Lei è stato colpito da una malattia che le impedisce di sollevare le braccia oltre una certa altezza ma molte delle sue opere sono di dimensioni notevoli: come riesce fisicamente a realizzarle? Come la disabilità ha influito sulla sua produzione artistica? Gli altri come la vedono? E lei come vive questi sguardi?
Avevo 30 anni quando mi sono ammalato e la strada è diventata subito molto difficile. Ma non ho mai permesso a tutto questo di influenzare la mia visione della vita; la disabilità è un problema soprattutto mentale, non si possono fare delle cose ma se ne fanno altre. Mi piace realizzare opere grandi per avere muri da abbattere, riuscirci fa parte di ciò che sono: spesso dipingo metà della tela, poi qualcuno me la capovolge e ne dipingo l’altra metà praticamente sottosopra. Come mi guardano gli altri è un problema loro, io ho altre cose a cui pensare. Molti hanno paura della diversità perché non la conoscono e non sanno che anche se con difficoltà si può vivere pienamente, proprio come faccio io.