di Stefano Nico
C’è un piatto che non è solo ricetta, ma rito. Non è solo sapore, ma memoria collettiva. Nelle cucine di Teramo e dintorni, quando arriva il 1° maggio, le pentole più grandi vengono tirate fuori, le famiglie si radunano, e si prepara qualcosa che è molto più di una minestra. Si preparano Le Virtù, una sinfonia gastronomica che celebra la fine dell’inverno, la speranza della primavera, l’arte del riuso e la ricchezza dell’agricoltura abruzzese. Siamo nel cuore dell’Abruzzo teramano, dove le montagne si avvicinano al mare e le stagioni hanno ancora voce. Qui le Virtù sono un evento, una preparazione che può durare giorni, una tradizione che tiene insieme generazioni, contadine e borghesi, la cultura dell’orto e quella della dispensa.
Un piatto con l’anima della terra
Chiamarle “minestra” è riduttivo. Le Virtù sono un inno alla diversità degli ingredienti: legumi secchi avanzati dall’inverno (ceci, fagioli, lenticchie, cicerchie), cereali (farro, orzo, grano), paste miste, verdure fresche di stagione, erbe spontanee, e un tripudio di carni: maiale, oca, manzo, prosciutto, cotiche, salsicce, polpette. Il tutto arricchito con olio, aromi, e spesso una generosa grattugiata di pecorino. È come se la terra, nel suo passaggio tra morte e rinascita, parlasse con una sola voce: quella delle Virtù. Ogni ingrediente racconta un gesto antico: conservare, recuperare, rispettare. Ma anche celebrare l’abbondanza, condividere, prepararsi all’estate. Nelle Virtù c’è tutta la saggezza agricola delle famiglie abruzzesi, che non buttavano nulla e sapevano trasformare gli avanzi in piatti sontuosi.
Perché si preparano proprio il 1° maggio? Perché è la data simbolica in cui l’inverno è ormai alle spalle e la terra ha ripreso a donare. Le Virtù nascono proprio da questo passaggio: si “svuota la credenza” dalle provviste secche, e si accoglie il fresco dell’orto. È un piatto che segna la fine di un ciclo e l’inizio di un altro.
Le famiglie iniziano la preparazione anche una settimana prima. I legumi vanno messi a bagno per giorni, le carni vanno cotte a lungo, le verdure mondate, le paste selezionate. Ogni casa ha la sua versione, il suo segreto, il suo equilibrio. In alcuni casi, si arriva a usare oltre 50 ingredienti diversi. Una ricetta che è un manifesto di identità.
Un piatto che si tramanda come un rito
Ci sono nonne che lo insegnano alle nipoti come una formula magica, osterie che lo servono solo in quei giorni, e gruppi di amici che si ritrovano ogni anno per cucinarle insieme. Le Virtù non si mangiano da soli: si condividono, come si condivide un ricordo, una festa, un brindisi. E poi ci sono le sfide, le gare tra cuoche, le versioni “vegetariane”, le reinterpretazioni gourmet. Ma in fondo, ciò che resta invariato è l’anima del piatto: il suo essere un racconto lungo dodici mesi, cucinato in un solo giorno.
Un piatto che è un’opera d’arte popolare
Mettetele in tavola, e il primo impatto è visivo: un tripudio di colori, consistenze, forme. Il cucchiaio affonda in un mare denso e profumato. Ogni boccone è una sorpresa: la dolcezza di una carota novella, il corpo di un fagiolo borlotto, il tocco sapido della pancetta, il guizzo di una foglia di borragine. È un piatto che cambia a ogni assaggio, che non finisce mai di raccontarsi. Una slow food ante litteram, una cucina che chiede tempo, attenzione, rispetto. E che regala in cambio una delle esperienze più autentiche che si possano vivere a tavola.
Le Virtù non si spiegano: si vivono. In un prato, in una casa piena di voci, o in una trattoria teramana con la tovaglia a quadri. Basta sedersi, versarsi un bicchiere di Montepulciano d’Abruzzo, e lasciarsi avvolgere da questo abbraccio gastronomico che sa di terra, di memoria, e di futuro.