SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Tra le bombe che cadevano, quel 27 novembre 1943, in tanti videro un uomo con una bambina tra le braccia, correre dal Paese Alto verso l’ospedale di via Pizzi, Si chiamava Serafino Curzi. La bimba, di 8 anni, era sua figlia e si chiamava Teresa. La corsa era quella di un padre disperato che tenta in tutti i modi di portare la figlia al sicuro. Ma una volta arrivato di fronte la porta del Madonna del Soccorso, che all’epoca era in via Pizzi, si rese conto che non c’era più nulla da fare. La bambina era morta tra braccia del padre durante quella corsa tanto inutile quanto disperata.
Bastarono pochi minuti per rompere ogni cosa, per spezzare vite e distruggere intere famiglie. Perché nonostante i primi due bombardamenti dell’11 e del 15, quel 27 novembre San Benedetto era tutt’altro che deserta. Qualcuno era sfollato e si era diretto verso le colline e verso le campagne. Ripatransone, Offida, Monteprandone. Ma altri erano rimasti a San Benedetto e anche chi aveva trovato rifugio altrove tornava in città, durante il giorno, per lavorare.
E quando arrivarono gli aerei in molti si illusero che si sarebbe ripetuto lo stesso copione di due settimane prima. Bombe al porto e in spiaggia. Ma due settimane prima a coordinare il bombardamento c’era un militare di Chicago Heights che si chiamava Luigi Pignati e che, memore delle origini sambenedettesi della propria famiglia, tentò in tutti i modi di risparmiare i propri concittadini. E ci riuscì evitando alla città altri funerali dopo i quattro morti dei bombardamenti del mese precedente: Tommaso Marchegiani (a cui venne poi intitolato lo stadio cittadino prima che si chiamasse F.lli Ballarini), Nicola Mazza, Nazzareno Pompei e Gennaro Savelli.
Ma il 27 novembre si faceva sul serio. L’obiettivo degli alleati erano le batterie tedesche piazzate in prossimità dell’immediata collina di San Benedetto, nei pressi di Villa Mancini. Faceva caldo e il bombardamento fu violento. Il centro, il Paese Alto, la statale 16, e ancora via Pizzi, via Roma, via Carducci. Tutto cadde e rimase poco o nulla. Decine furono i feriti. Venticinque i morti.
La prima a morire fu Vincenza Cupido, sessantatre anni. La sua bomba cadde a mezzogiorno in punto in via Roma. Dieci minuti dopo un’altra bomba spezzò la vita Achille Bruni, Giuseppe Mora e Guido Morelli. La deflagrazione li sorprese in un frantoio di via Conquiste insieme a Luigi Morelli, fratelli di Guido, che morì due giorni dopo in ospedale. Non fu risparmiata neppure casa Anelli, lo storico palazzo che oggi ospita la sede vescovile. Alle 12 e 10 una bomba squarciò il suo lato sinistro. Morirono altre cinque persone Maria Cinaglia e le figlie Lidia e Lia Papetti. Con loro anche coniugi Maria Sofia Napoletani e Nicola Paci osti della locanda di via La Spezia, in centro. Le bombe costarono la vita anche ad Achille Bruni, Raffaele Libbi, Maria Chioma, Bruno Caldarese, Regina Capecci, Giuseppina Consorti, Teresa Curzi, Domenico Di Nunzio, Nicola Mascitti, Giuseppe Testa, Vincenzo Pasquali, Adele Mosca, Nicola Pignotti, Nicola Ricci, Emidio Silenzi e Annunziata Trevisani. Giovani e meno giovani, muratori e casalinghe, albergatori e contadini. Tutti sorpresi a tradimento dalle bombe sganciate da aerei che la storia avrebbe poi definito “alleati”. Di certo, per loro, non lo furono.